Sei brutte figure

1. Quando studiavo all’università, a Roma, mi è capitato per un periodo di dare delle ripetizioni di grammatica italiana a un ragazzino, Michele mi sembra si chiamasse, che era alle scuole medie. Una volta, è successo che Michele mi ha chiesto: “Ma il plurale di ‘camicia’ si scrive con la ‘i’ o senza”. Io gli ho risposto: “Con la ‘i’”, e lui mi ha chiesto: “E perché?”. Io non me lo ricordavo perché, e ho provato a cercare la risposta sul suo libro delle medie, e allora lui mi ha detto: “Però tu lo dovresti sapere senza libro”. E io gli ho risposto: “Lo sai cosa, nella grammatica italiana sono tutte eccezioni”.
2. Sempre quando studiavo all’università, a Roma, c’è stato un periodo, con alcuni amici, in cui organizzavamo degli incontri pubblici nella sala studio della cappella universitaria. Gli incontri che organizzavamo noi erano, soprattutto, delle cose sulle diseguaglianze tra nord e sud del mondo. Alla fine di uno di questi incontri, una volta, mi sono fermato a parlare con due ragazzi che stavano lì, erano fratello e sorella, e volevano avere qualche informazione su quello che facevamo. Io gli ho spiegato un po’, loro mi hanno ascoltato, e quando ho finito di parlare e non sapevo più cosa dire, loro hanno continuato a stare lì, a guardarmi, non se ne andavano; io ero un po’ in imbarazzo, perché eravamo tutti e tre lì, in silenzio. Allora ho cominciato a raccontare un aneddoto simpatico, pensavo io, per farli ridere. Gli ho raccontato, non so perché m’è venuto in mente, di una volta, che a uno di quegli incontri nella cappella dell’università, si era sentita male una signora, e un mio amico aveva detto: “Che faccio, chiamo l’ambulanza o meglio papà che magari ci scappa un lavoretto?”. Che suo papà, avevo spiegato a loro, per farli ridere, aveva un’agenzia di pompe funebri. Solo, i due ragazzi, quando gli ho spiegato che il papà di questo mio amico aveva un’agenzia di pompe funebri, non hanno mica riso, e mi hanno raccontato che anche la loro famiglia aveva un’agenzia di pompe funebri, proprio lì vicino all’università, era una delle agenzie di pompe funebri più grandi di Roma, aveva delle sedi in tanti quartieri e ogni tanto facevano anche la pubblicità coi manifesti stradali, col numero di telefono e uno slogan: “Perché piangere due volte. Funerali da 99 euro al mese”.

3. Una volta, ero in vacanza in Grecia, mi chiama un amico, Arturo, da Roma, e mi dice: “Senti Matte’, tu sai suonare il basso, giusto?”. E io gli rispondo: “Sì, niente di speciale, però via, lo so suonare”. Non era mica vero, io il basso elettrico l’avevo comprato, e lui l’aveva visto nella mia stanza, a casa dei miei genitori, in quel periodo abitavo coi miei genitori, ma avevo preso solo due lezioni e non avevo ancora imparato quasi niente. Arturo aveva un gruppo che si chiamava Le locomotive, una cover band di Guccini, con cui dovevano fare un concerto a Monterotondo, un paese vicino Roma, solo il loro bassista non poteva andarci perché aveva da lavorare la sera del concerto. Ecco perché gli serviva un bassista, e siccome Arturo, una volta, aveva visto un basso elettrico nella mia stanza, aveva pensato che forse potevo suonare io al posto dell’altro bassista e me l’aveva chiesto, e io gli avevo detto che lo suonavo, che andava bene. E quando ho attaccato il telefono, mica ho pensato: “Che cazzo ho fatto, io il basso non lo so suonare”. Ho pensato: “Bello, a settembre suono con un gruppo. Due lezioni di basso e già suono. Daje”. Quando sono rientrato dalla Grecia, sono andato nella sala prove dove Le locomotive provavano le loro cover di Guccini e gli ho detto di farmi sentire come suonavano, e suonavano bene, e allora mi sono reso conto che non sapevo come uscirne, da quella situazione. Quando hanno finito di provare, il bassista, Enrico si chiamava, mi ha chiesto se volevo provare io, un pezzo solo. Io ho preso in mano il suo basso e ho detto agli altri di suonare, che cercavo di stargli dietro, ma poi, più che altro, ho fatto finta, di suonare, muovevo le dita sulle corde, ogni tanto facevo venire fuori una nota dall’amplificatore. Sono andato via dalla sala prove che non sapevo proprio come uscire da quella situazione, avevo un’ansia. Il giorno dopo è venuto a casa mia, dai miei genitori, Arturo, quello che m’aveva chiamato quando ero in Grecia, lui era il cantante delle Locomotive, e m’ha detto, era un po’ in imbarazzo: “Senti Matte’, guarda, noi ci siamo resi conto che il concerto è tra pochissimo e non c’è molto tempo per provare, allora abbiamo chiamato un turnista, uno che lavora con Luigi Grechi, il fratello di De Gregori, uno con cui abbiamo già suonato altre volte, che già conosce il nostro repertorio, spero non ti dispiaccia”. E io gli ho risposto: “No certo, lo capisco, tranquillo, io non ho avuto la testa per stare sul basso in questo periodo, tranquillo”. E ho cercato di fare una faccia, come uno che era dispiaciuto, ma fino a un certo punto, in fondo ero contento, e pensavo: “Guarda come ne sono uscito bene. Magari non se ne sono nemmeno accorti che non lo so suonare proprio per niente il basso. Magari pensano che lo suono, ma non benissimo”. Poi, quando c’è stata la festa a Monterotondo, quella in cui dovevano suonare, sono pure andato a sentirli, Le Locomotive, volevo continuare a fare, davanti a tutti loro, quell’espressione che avevo in testa, di uno che c’è rimasto male, ma fino a un certo punto. Solo che quando Le locomotive sono saliti sul palco e ho visto che a suonare il basso non c’era il turnista di Luigi Grechi ma il fratello di Arturo, che era un ragazzino di quattordici anni, ho pensato che mi sa che se n’erano accorti, che non sapevo suonare proprio per niente.
4. La prima volta che siamo usciti insieme con Anna, con cui adesso siamo sposati, è mia moglie, siamo andati in un bar a prendere una cosa da bere. Io sono di Roma, Anna è siciliana, e allora le ho chiesto di quale città della Sicilia fosse. Anna mi ha detto che era nata a Catania, ma era cresciuta in un paese della provincia di Siracusa che si chiama Lentini. Io le ho detto: “Come no, Lentini. La città del grande Jacopone da Todi”. Anna m’ha guardato e m’ha corretto: “Jacopo da Lentini”. “Sì, esatto”, ho detto io, “Jacopone”.
5. Un’altra volta, sempre con Anna, con cui adesso siamo sposati, è mia moglie, era già un po’ di tempo che ci conoscevamo, mi ha invitato a cena a casa sua, a Magliana, il quartiere di Roma dove abitava in quel periodo. Quando è arrivato il momento di andarmene, ci siamo salutati, io sono uscito e sono andato alla macchina, l’avevo parcheggiata sotto casa sua. Sono arrivato al parcheggio ma la macchina non c’era: “Ecco, ho pensato, m’hanno rubato la macchina”. Sono tornato a casa di Anna, lei era già in pigiama, io ero molto agitato e le ho detto: “Porca puttana m’hanno rubato la macchina”. E Anna m’ha guardato e m’ha detto: “La tua?”. E io le ho detto, ero agitatissimo: “E certo, la mia, devo chiamare i vigili. Qual è il numero dei vigili?”. Ero così agitato che non mi ricordavo il numero dei vigili. Allora Anna, che intanto s’era rivestita, m’ha chiesto: “Dov’è che l’avevi parcheggiata la macchina?”. E io: “Davanti alla farmacia”. Sotto casa sua c’era una farmacia aperta anche di notte. Allora siamo scesi e siamo andati di fronte alla farmacia e lei voleva sapere dov’era la macchina e io le ho indicato il punto, e mentre lo indicavo mi sono reso conto che la macchina c’era, era parcheggiata proprio dove mi ricordavo di averla parcheggiata.
5bis. Qualche mese dopo, con Anna, abbiamo parlato della sera in cui non trovavo la macchina parcheggiata sotto casa sua, e io le ho chiesto: “Ma tu, che hai pensato quella volta che non trovavo la macchina che stava parcheggiata sotto casa tua?”. E lei m’ha risposto: “Che non eri mica tanto normale”. E io: “Ma hai avuto dei dubbi, sul nostro rapporto?”. E lei: “Più che sul nostro rapporto su di te, non ero mica sicura che fossi tanto normale”. E quando ne riparliamo, oggi, sono passati degli anni, io le domando ancora, ogni tanto: “Ma tu, che hai pensato quella volta della macchina?”. E lei: “Che non eri mica tanto normale”. E io: “E a distanza di anni, che pensi?”. E lei: “Vabbè, ormai”.
6. Una sera di un paio di anni fa sono uscito a prendere una birra con un amico, Luca, con cui esco spesso per prendere una birra. A un certo punto abbiamo cominciato a parlare dei libri che stavamo leggendo, in particolare parlavamo di Murakami, uno scrittore giapponese, che aveva appena pubblicato un libro che si intitolava 1Q84 che, nell’edizione italiana, era diviso in due tomi. Io avevo comprato solo il primo dei due tomi, ma a Luca avevo detto che avevo cominciato a leggere anche l’altro (mica lo so perché, forse perché io di mestiere mi occupo di libri, e alle volte, quando le persone mi parlano di libri, mi sembra che dovrei averli letti tutti). Il giorno dopo, quando Anna, mia moglie, è rientrata dall’ufficio, m’ha detto: “Lo sai che alla stazione ho incontrato Luca. Abbiamo parlato di Murakami, mi ha detto che sta leggendo il secondo tomo di 1Q84 e gli ho chiesto se me lo prestava quando lo finiva. Lui m’ha risposto: ‘Ma come, Matteo m’ha detto che lo sta leggendo?’”. E mentre Anna mi raccontava questo fatto sono diventato rosso e le ho detto: “No. No. No. E tu che gli hai detto?”. E Anna m’ha risposto: “Che mi sa che te l’eri inventato”.

[Di Matteo Girardi]